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Un garagista e il Signor G

Molti anni fa, circa un quarto di secolo or sono, ero solito parcheggiare per la notte la mia vettura di allora in un’autorimessa situata vicino casa mia a Roma. Il gestore del garage era un argentino della provincia di Buones Aires, si chiamava Angelo.

Le sue origini, la cadenza musicale tipica dell’idioma sudamericano, lo sguardo vispo, la rapidità di intuizione e la scioltezza nei convenevoli, talvolta però molto rigorosi, furono i motivi principali per i quali fu agevole stabilire tra noi una sottile confidenza. Angelo aveva lasciato l’Argentina da giovinotto, appena agli inizi degli anni ’80 per via della dittatura militare che a quel tempo governava la nazione e si trovava a contemplare da lontano, trovandosi oramai in Italia, gli effetti della pesante crisi economica che dall’avvicendarsi dell’anno 2000 stava drammaticamente affliggendo il suo paese.

Provate ad immaginare: di cosa mai potevano parlare un bonaerense ed un napoletano, tifoso del Napoli? Ça va san dire che il discorso o finiva o iniziava sempre parlando di Diego! Angelo mi confidò che a Napoli non ci era mai stato pur essendosi ripromesso tante volte di andarci. Per dargli un’idea seppur parziale di quanto fosse incontenibile la gioia che Maradona ci aveva regalato e della simbiosi con Napoli ed i napoletani, gli prestai un DVD che conteneva tutti i gol di Diego sia con la maglia del Napoli (con tanto di riprese dei festeggiamenti cittadini del primo scudetto) sia con quella dell’Albiceleste. “Angelo questo è il DVD che ti dicevo te lo presto solamente a condizione che me lo restituisca domattina, non oltre”. Fu di parola! L’indomani di buon ora recandomi a prendere la macchina per andare in ufficio, Angelo mi restituì il DVD senza riuscire a nascondere una velatura nei suoi occhi. “Que tienes hombre?” gli chiesi avendo notato che le lacrime avevano rotto gli indugi; “ho iniziato a piangere da stanotte vedendo il tuo DVD” mi disse “e non riesco ancora a smettere. Pensa che i miei figli sono nati in Italia, non sono mai stati in Argentina e si sono commossi pure loro.” Non ci volle altro per comprendere che quelle lacrime erano gocce di dolore piovute da nubi fitte intrise di ipocondriaca nostalgia, di una malinconia struggente per qualcosa che ti appartiene ma che sta troppo lontano. Decisi allora di fare tardi al lavoro e lo invitai a fare colazione al bar adiacente il garage, parlando, poco più del tempo di un cappuccino, della sua terra, dei mondiali del 1978, 1986 e 1990 che per ragioni diverse non si era goduto, e di un certo tipo di sorte che pare accomunare i sud del mondo. Prima di salutarlo, chiesi ad Angelo se fosse mai ritornato in Argentina, mi rispose di no con un tono di voce che si era messo “a dispetto”, quasi a legarselo per sempre al dito quell’esodo forzato. “Ma cosa ti ha spinto, perché te ne sei andato?” gli chiesi per ultimo salendo in macchina. La risposta fu lapidaria, “Non sapevo che pensare, non sapevo più se credere al ladro o al poliziotto” replicò Angelo tagliente e corto! Ebbi subito la netta impressione che quelle poche e rigorose parole raccontassero la realtà meglio di tante immagini ed espressioni; ho maturato poi in seguito per altre esperienze, l’idea che di solito è così, la verità non ha bisogno di tante parole. Reputai allora e continuo oggi a considerare una fortuna inestimabile, lasciataci in dote dalle conquiste delle generazioni che ci hanno preceduto, poter nascere in un Paese repubblicano, democratico e liberale, il nostro, in cui i diritti civili sono ampiamente previsti, garantiti e tutelati. Eppure spesso capita anche a me di essere assalito dallo stesso dubbio di Angelo, restando assai perplesso, dopo avere ascoltato un notiziario o aver sfogliato un quotidiano, su cosa pensare e a chi credere. E’ un’inquietudine che mi sovviene specie ogni qual volta sento disquisire di argomenti legati all’indipendenza ed all’autonomia. Penso ad esempio all’autonomia cosiddetta differenziata (per la quale le regioni a statuto ordinario possono chiedere allo Stato, competenza esclusiva su disparate materie di politiche pubbliche, trattenendo anche il gettito fiscale che non sarebbe più distribuito su base nazionale a seconda delle necessità collettive), che pare però sia stata mandata in nomination dalla diatriba più recente ed alquanto feroce, concernente l’autonomia ed indipendenza tra i vari poteri dello Stato, nello specifico tra il potere esecutivo e la magistratura, tornata prepotentemente alla ribalta per il caso della mancata convalida del trattenimento di migranti in Albania. Vado considerando che appare sempre più arduo maturare delle idee compiute, imparziali e non condizionate su cosa pensare e a chi credere; per quanto mi riguarda, non senza qualche sforzo, privilegiando la dispendiosa in termini di tempo, attività di “indagine”, forse alla fine se non ci riesco ci vado vicino, restando consapevole che le idee maturate non possono ovviamente assurgere a verità indissolubile e rendendole per questo oggetto di discussione e di confronto ogni qual volta si renda opportuno o più semplicemente capiti. Autonomia ed indipendenza sono concetti che spingono verso la ricerca di libertà che è soprattutto di pensiero e che rendono più nitida la ricerca sul “sapere in cosa e chi credere” che Angelo il garagista aveva smarrito. Le generazioni emergenti, i giovani e giovanissimi, hanno gli strumenti per elaborare un pensiero autonomo, indipendente, “critico” e non per questo eversivo, libero, rivolto quindi alla ricerca della verità? La profilazione delle idee, il condizionamento dei giudizi, l’omologazione delle opinioni, mi sembrano, e non da ora, uno dei pericoli maggiori del nostro tempo, di cui forse non si parla e per il quale non si fa abbastanza. Non è questione di questo o quel governo. Certo, la carenza di un dialogo politico costruttivo non aiuta affatto l’articolazione di un pensiero imparziale ed incondizionato, schiava com’è la politica di partiti autoreferenziali e faziosi. Non aiuta l’informazione, non indipendente dalle logiche di schieramento politico, non aiuta il divario, alimentato da distorsive logiche di mercato, tra chi sta bene o meglio e chi invece continua a patire, non aiuta nemmeno la tecnologia che sta vincendo a mani basse la sua battaglia e che dopo averci trasformato in propaggini di smartphone e tablet, si avvia a rendere l’intelletto la derivazione di un’intelligenza (artificiale) che non è la nostra. Scrollarci ciascuno di dosso una pigrizia negligente, che mi pare sempre più invasiva, partecipare, esporsi senza pregiudizi, su temi che ci riguardano o che semplicemente ci appassionano, credo possa essere utile per rendere “pensante il pensiero” e liberarlo dai condizionamenti indotti. Mi viene in mente un long playing di Giorgio Gaber del lontano 1976, il cui titolo, “Libertà Obbligatoria” è tutto un programma. Nell’album è presente “Si può”, brano assai sagace, nel quale il Signor G. prende in giro un sistema che ci illude di essere liberi arrivando nel testo a dire “Ma come? Con tutte le libertà che avete, volete anche la libertà di pensare? Utopia, utopia”. “Si può” anzi direi si deve!

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