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Dazi amari

E’ tra i trending topic del momento, se ne sente parlare a colazione, pranzo e cena e c’è da scommettere che sarà di tendenza ancora per un po’. Ma cosa sono i dazi di cui diffusamente si dice nei vari telegiornali e notiziari trasmessi a tutte le ore?

Tecnicamente il dazio è un’imposta indiretta, in quanto colpisce (il) e si applica al trasferimento dei beni o servizi, (a differenza delle imposte dirette, che colpiscono invece la produzione di ricchezza ossia il reddito). Possono essere di vario tipo, quelli sui quali qui ci soffermeremo sono i dazi cosiddetti di confine, nella fattispecie i dazi di importazione, recentemente rilanciati dalla nuova Amministrazione U.S.A. che intende farne uno strumento cardine della propria politica economica. I dazi di importazione sono una “tassa”(impropriamente detta) che si applica alle merci in arrivo da un paese straniero, colpisce quindi prodotti, beni o servizi che attraversano il confine ed entrano nel territorio del paese importatore il quale, per immetterli nel proprio mercato, ne impone per l’appunto il dazio. Vengono pagati alla dogana dall’esportatore: una volta compiuto il pagamento, i prodotti o servizi possono circolare liberamente in un determinato territorio. C’è una scena famosa ed esilarante con Benigni e Troisi di un celebre film del 1984 “Non ci resta che piangere” (Chi siete? … Cosa portate?….. Si ma quanti siete? … Un fiorino!) che, su cosa sia il dazio, rende molto bene l’idea. I dazi sull’importazione sono imposti con il presupposto politico di proteggere la produzione interna dalla concorrenza estera. L’obiettivo è di aumentare il prezzo e rendere l’import meno vantaggioso, quindi meno competitivo, rispetto ai beni o servizi analoghi locali. L’idea di fondo è che rendendo più cara la merce straniera, i consumatori sceglieranno di comprare merce nazionale. I dazi sono ritenuti superati da un’ampia ed autorevole schiera di economisti; decenni di globalizzazione e libero scambio, ne hanno seriamente confutato la reale efficacia evidenziando la loro natura distorsiva e controproducente. A partire dagli anni novanta la comunità internazionale ha cercato infatti di limitare i dazi in genere ed in particolare quelli di confine, grazie ad accordi commerciali e alla partecipazione sempre più crescente di paesi all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), ente internazionale che ha l’obiettivo di favorire il libero scambio e limitare misure protezionistiche, arbitrarie e discriminatorie di per sé idonee ad ostacolare i commerci. Le barriere tariffarie come i dazi per l’appunto, danneggiano tutti i partner commerciali, compresi quelli che ne sono esentati, perché alterano i flussi di scambio e interrompono le catene globali del valore, provocando in tal modo reazioni uguali e contrarie da parte dei Paesi colpiti. Agevolano inoltre l’incertezza, finendo così per ostacolare commesse e investimenti all’estero. L’imposizione di un dazio porta alla reazione del Paese che lo subisce. Il pericolo maggiore quindi è quello di cadere in una spirale di misure e contromisure protezionistiche, cioè in una guerra commerciale che pregiudicherebbe seriamente gli stessi rapporti economici e politici tra i singoli Stati. E’ da comprendere dunque il motivo per cui le Borse stanno reagendo con fibrillazione alla notizia di applicazione di dazi da parte dell’America, perché la prospettiva di guerre commerciali mette a repentaglio il sistema di scambi internazionali, con tutte le sue forti interdipendenze produttive e finanziarie. Perchè mai la nuova Amministrazione U.S.A. intende fare leva sui dazi come congegno primario della propria politica economica? Certo la feroce concorrenza con la Cina, le difficoltà di interi comparti economici, giunti al collasso per la esasperata concorrenza internazionale, la difficoltà dei lavoratori occupati in quei settori che fanno fatica a reimpiegarsi, la recente crisi di popolarità del modello “neoliberista”, che ha lasciato sul campo non poche vittime della globalizzazione, hanno conferito ai dazi una risonanza che avevano perso. Ma è solo questo che ha spinto l’America a dare loro centralità nella sua politica economica? Una teoria, condivisibile o meno che appare comunque stimolante al riguardo, è quella esposta dal Prof. Emiliano Brancaccio nel suo saggio “Le condizioni economiche per la pace” (ne abbiamo parlato https://www.passnews.it/2024/09/10/battito-animale/ ). Alcune dinamiche, peraltro chiaramente spiegate nel libro, quali la tendenza alla centralizzazione dei capitali, la crisi del processo di liberalizzazione, lo squilibrio tra economie debitrici e creditrici, avrebbero determinato secondo il Prof Brancaccio, un sensibile svilimento della egemonia economica americana spingendo perciò gli U.S.A. ad introdurre politiche protezioniste, antitetiche alla liberalizzazione, che oggi avvantaggia non tanto l’America, ma altri paesi come ad esempio la Cina. Se a questo si aggiunge anche il fluttuante e mutevole scenario di alleanze sul piano delle relazioni diplomatico governative, si ha l’idea del complesso, articolato, indecifrabile e talvolta ambiguo quadro attuale geo politico economico mondiale. Svariati decenni passati all’interno di primarie aziende multinazionali, hanno dimostrato a chi scrive che di norma la concorrenza la si regolamenta, non senza imperfezioni, abbattendo, non innalzando barriere all’ingresso. Certamente una cosa sono le dinamiche aziendali, altra e ben diversa faccenda è la bilancia commerciale di uno Stato, ma non è tanto questo il punto, non è solo questione se i dazi americani siano o meno impopolari, sbagliati o inopportuni. Anche i dazi non sfuggono a ciò che in genere vale per tutte le decisioni, dipendendo la bontà dell’opzione che si intende adottare, dal momento, dalle circostanze, dall’attitudine a risolvere un problema piuttosto che a crearne altri, dal modo in cui la si pone ed esercita. In un mondo vessato da guerre funeste tra le cui conseguenze più urgenti e terribili si registra l’aumento del costo delle materie prime, la guerra commerciale che i dazi U.S.A. possono in concreto scatenare, è realmente ciò che serve? Ciascuno la pensa come meglio crede ovviamente ma il fatto è, detto in maniera prosaica, che i dazi rassomigliano un po’ a una “tamarrata”, la cui ratio, quella di imporre una gabella per ottenere un’apertura, appare purtroppo la stessa di quella che, sempre l’attuale Amministrazione Americana, ha posto a fondamento per la pace nel conflitto tra Russia e Ucraina. Genera ancora strascichi nella diplomazia mondiale, il deprimente, avvilente, sconcertante, mortificante show andato in onda in mondovisione lo scorso 28 febbraio dallo Studio Ovale della Casa Bianca. Sceriffi senza stella, elegantemente vestiti da giustizieri più che di giustizia, hanno dozzinalmente barattato (per ora tentato di barattare) la pace con la concessione di ingenti ricchezze da parte del Paese aggredito e già sfinito dalla guerra, senza fornire a quanto pare, alcuna garanzia di stabilità su un’eventuale ripresa bellica postuma da parte dell’attuale aggressore. Se ciò fosse o sarà effettivamente vero, si è andati oltre il tentativo unilaterale di imposizione, sfociando piuttosto in un’estorsione politicamente intesa. Da crocevia della diplomazia internazionale, emblema della democrazia mondiale, lo Studio Ovale ha assunto in quella sconvolgente circostanza le sembianze di una piazza di spaccio della più sfrontata arroganza, in cui il principio di forza del diritto si è trasformato in quello opposto di diritto della forza. E’ illusorio pensare che una pace sia esente da rischi, sacrifici e dolorose concessioni, ma ha senso una pace umiliante, che tenta di sovvertire la ricostruzione storica, che priva il Paese offeso delle sue risorse pregiate, negandogli così di riprendersi economicamente, senza peraltro mallevarlo da pericolose recidive? “Here comes the sun” cantavano i Fab Four in un famoso brano del 1969, l’unico se non erro scritto da George Harrison. Crederci è faticoso ma doveroso, prendendo atto con rammarico e tristezza che almeno per ora questo mondo tutto sembra tranne che “‘O paese d’ ‘o sole”.

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