Le note (quest’anno “bagnate”) del consueto concerto celebrativo della Festa del Lavoro da poco trascorsa, hanno ancora una loro risonanza, prodotta dall’eco riflesso delle commemorazioni precedenti legate alla Festa della Liberazione, cui seguirà il riverbero dei festeggiamenti prossimi per la Festa della Repubblica.
Per comprenderne forse meglio l’essenza, occorrerebbe vedere il 25 aprile, il 1° maggio ed il 2 giugno non come ricorrenze separate ma connesse tra loro, una triade di eventi che seppur ravvicinati non si sovrappongono ma si integrano. Una sorta di “trinità celebrativa” della nostra repubblica democratica: tre ricorrenze diverse e distinte che disegnano però il medesimo profilo, animano la stessa figura, popolano un identico ideale di libertà e democrazia.
L’una celebrazione appartiene all’altra, trovando tutte e tre convergenza, ospitalità, rango e regolamentazione in un’unica, grande, accogliente e armoniosa “casa comune”: la nostra Costituzione. La liberazione dalla dittatura fascista e dall’occupazione nazista, segnò nel 1945 lo “switch” che portò all’avvento della Repubblica grazie al referendum popolare istituzionale del 2 giugno 1946 nel quale uomini e (per la prima volta) donne furono chiamati a decidere quale forma di stato dare all’Italia (Monarchia o Repubblica), e ad eleggere l’Assemblea Costituente che avrebbe poi dato vita alla nuova Costituzione (quella Repubblicana per l’appunto).
Come scorresse la vita in quel tempo transitorio, quasi sospeso, quale ne fosse la condizione (in particolare quella femminile, ma non solo) e lo spaccato lavorativo e sociale, lo racconta splendidamente “C’è ancora domani” il recente e pluripremiato film di Paola Cortellesi.
Malgrado abbia riscosso un grande successo di critica e di pubblico, la pellicola meriterebbe riconoscimenti ben più ampi. E’ un film da proiettare ancor prima nelle scuole oltre che nella sale cinematografiche o in TV: l’arte (un film in questo caso) va oltre l’apprendimento, aiuta ad assimilarla la storia, a percepirne il senso, la ratio. Al netto di ciò che la storia ci consegna, le date, i luoghi, i nomi, i dettagli, le immagini di quei fatti che cambiarono il Paese, ciò che effettivamente diede impulso e rese possibile la Liberazione dalla dittatura e dall’occupazione nazifascista, fu’ l’unione ed il comune sentimento di un popolo, che antepose, anche a costo del sacrificio supremo, il bene e l’interesse collettivo a quello individuale.
La fede in un valore altissimo e l’impegno per una causa comune superiore, prevalse sull’esigenza dei singoli. Essere liberi per se stessi non avrebbe liberato nessuno se la libertà non fosse appartenuta a tutti, se non fosse stata riconosciuta a tutti pari dignità ed uguaglianza, gli stessi diritti e doveri. Il sistema repubblicano e la Costituzione ne hanno poi sugellato la forma. Nascere oggi in una Repubblica democratica, con ampi diritti garantiti e tutelati, relega talvolta il senso e l’anamnesi storica in spazi ancor più remoti del tempo trascorso da quella conquista. Quasi come fosse divenuta la libertà, pretesa ormai acquisita, scontata a prescindere, un bene inflazionato che ha disperso la sua “qualità” e la sua natura. Ricordarsi ogni tanto dov’è che è andato a finire il libretto delle istruzioni, cercarlo e sfogliarlo, potrebbe essere un utile esercizio.
E della Repubblica (dal latino res publica, ossia “cosa pubblica”, da intendersi come “stato del popolo”), quale percezione ne abbiamo oggi? Bussano prepotenti alla porta dei pensieri che queste righe tentano confusamente di esprimere, alcuni versi cantati da Giorgio Gaber, per il quale “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche un gesto o un’invenzione, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione” (da “La libertà” brano del 1973 di Giorgio Gaber e Sandro Luporini), vale a dire la possibilità di essere attivamente coinvolti nella società. Il brano ci vuole dire che la libertà deve essere condivisa, non si è liberi da soli ma collettivamente, perciò l’habitat naturale della libertà non può che essere la democrazia. Vale la pena domandarsi allora in quali condizioni versa la nostra democrazia? Se lo chiedeva già una ventina di anni fa sempre il Signor G. “Io non mi sento italiano” è un altro brano di G. Gaber / S. Luporini, uscito nel gennaio 2003, pochi giorni dopo la scomparsa di Gaber.
“Mi scusi Presidente ma ho in mente il fanatismo delle camicie nere al tempo del fascismo. Da cui un bel giorno nacque questa democrazia che a farle i complimenti ci vuole fantasia. …. Mi scusi Presidente ma questo nostro Stato che voi rappresentate mi sembra un po’ sfasciato. E’ anche troppo chiaro agli occhi della gente che tutto è calcolato e non funziona niente. Sarà che gli italiani per lunga tradizione son troppo appassionati di ogni discussione. Persino in parlamento c’è un’aria incandescente si scannano su tutto e poi non cambia niente.”
Così dice il testo, ed era il 2003!! E’ un brano amaro e disilluso sulle contraddizioni, ancora attuali, del nostro Paese ma che esprime anche un orgoglio di appartenenza, una provocazione forte. Le provocazioni solleticano il pensiero il quale mette in evidenza che da lunga pezza le forze politiche non agevolano la democrazia, ricordandosi della partecipazione popolare solo al momento delle elezioni, più simili a campagne di marketing che ad attività politica. I partiti politici tanto per essere espliciti, risorti dopo la sconfitta della dittatura fascista e consacrati dalla Costituzione repubblicana, nata a valle del referendum del 2 giugno 1946, sono diventati organizzazioni autorefenziali distanti dalla gente. Incapaci di alimentare la democrazia, non incidono né promuovono la formazione di un’opinione politica compiuta, sacrificando volentieri il confronto costruttivo, all’ ostentazione di concetti prestabiliti spacciati per verità, utili ad intercettare o a mantenere un determinato elettorato.
La democrazia i complimenti li merita, per riprendere i versi di Gaber, non possono però essere fatti i complimenti alle organizzazioni che popolano la scena politica, che sospendono talvolta le dinamiche democratiche, svilendo la partecipazione popolare finalizzata ad assolvere e gestire interessi diffusi, in un sollievo ristoratore destinato a club di soli “eletti”. Anche gli organi di informazione si comportano oramai come veri e propri supporters, sacrificando il senso critico al tifo per questo o quello schieramento.
L’arte va oltre, si diceva prima e i versi di Gaber in relazione alla sostanza delle ricorrenze menzionate, arrivano diretti e precisi a sollecitare quasi una riflessione su una nuova, diversa, evoluta e non cruenta forma di liberazione, non da una dittatura per fortuna ma del pensiero civico … o forse no, non è il momento o non ce n’è bisogno?